La periferia della città
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Re: La periferia della città
Che dire di quest'opera?
Questa l'analisi trovata in rete. Aggiungete altro, se volete
Niente di più esteriormente oggettivo del corpo di Gala, che da solo sa suscitare in Dalì acuti deliri morfonutritivi, grazie ai quali non deve penare a lungo per trovare le similitudini più convincenti e fulminanti tra la sua Gestalt e quella di oggetti e paesaggi asserviti alla ferocia paranoica (d’altronde in “Ritratto di Gala con due cotolette d’agnello” si era già chiaramente espresso sulla sinonimia alimentare in qualità di “transfert” erotico; accade in” Periferia della città paranoico-critica -pomeriggio ai margini della storia europea” del 1935, integralmente governato da una legislazione che Lacan ha (si ricordi) chiamato “identificazione iterativa dell’oggetto”. Valgono in linea di massima le medesime invenzioni di corpi intercambiabili di “Dormiente...”, ma al centro di questa veduta ribassata tra un tempio e l’entrata di un paesino catalano sulla metà destra della tela il cardine morfologico viene intercettato con estrema fermezza nel busto vigoroso di Gala, erogatore del vortice paranoico che contagia tutti gli oggetti con la sua onnipresenza analogica. La certosina organizzazione di questa sinfonia è documentata dai pazienti studi del grappolo d’uva (composto da un aggregato di ovuli che riproduce su scala ridotta le curve sensuali di Gala) e del treno, groppa e teschio di cavallo che reiterano nelle muscolature e nelle ossa la disposizione dei chicchi d’uva offerti alla vista dal braccio alzato di Gala; a loro volta nel dipinto si istituiscono assonanze formali tra la cassettiera sormontata da uno specchio ovale e il tempio
all’orizzonte composto da un parallelepipedo rosso sulla cui facciata si erge un frontone ad arcate dechirichiane e un lanternino rinascimentale che combacia con lo specchio della cassettiera; sulla destra un altra brillante consonanza si verifica tra la bambina con la corda e la campana oscillante nel campanile retrostante (un tema desunto da "Malinconìa e mistero di una strada”di De Chirico), così come l’arcata e il vano della torretta campanaria si riflettono in negativo nell’apertura cuspidata in primo piano e ritorna per l’ultima volta nel comodino e nell’archetto in fondo al vicoletto del villaggio di pescatori. All’impostazione di quest’opera vanno ricondotti per affinità lirica” Eco morfologica”, semplificazione suggestiva della “geminatio” di oggetti su direttrici verticali (si può pensare che le figure siano dipinte su un muro o che stiano fluttuando in aria come vere e propri fenomeni di rifrazione ottica), le numerose versioni di”Eco Nostalgica”, e “Coppia di teste piene di nuvole” in cui ricorre ancora una volta il tavolo dal panneggio naturalistico e persino la cornice è coinvolta nella trasfigurazione antropomorfica del logos paranoico. Un ulteriore e significativo apporto dell’universo artistico di Dalì alla stesura della tesi lacaniana consiste nell’aver provato la relazione tra il fenomeno paranoico e il materiale preferito dalle creazioni surrealiste, il sogno, per cui il metodo paranoico-critico rappresenta un rimedio alla difficoltà che ciascun artista incontra nella oggettivazione di un’esperienza per sua natura soggettiva come quella onirica. "C’è percezione del mondo esterno, ma essa presenta una doppia alterazione che la avvicina alla struttura del sogno: essa sembra rifrangersi in uno stato psichico intermediario tra il sogno e lo stato di veglia”-19-. Difficilmente si potrà trovare un termine di paragone per misurare l’altezza poetica raggiunta dalla pittura daliniana tra il 1930 e il 1940, sebbene martirizzata a posteriori dalla critica di gran parte delle avanguardie del secondo dopoguerra (ad eccezione degli iperrealisti) incline a demonizzare la maniacale retrività tecnica richiesta dal metodo (Breton gli preferisce Ernst per la sua inesauribile dote d’innovatore tecnico che gli suggerisce di rendere onirico anche il “modus operandi” mediante l’ideazione del “frottage” e del “grattage”): ma in effetti Dalì resta il solo in grado di mettere in pratica le considerazioni di Breton che pure credeva nel metodo, “strumento di primissimo ordine” e che del soggetto paranoico aveva detto che “è in suo potere far controllare agli altri la realtà delle sue impressioni”.”-20-
Il “desiderio di verifica perpetua” viene pertanto esaudita dal catalano con una rosa di tele di piccole dimensioni in cui, con adeguato virtuosismo stroboscopico, si concentra nella sbalorditiva emulazione di una macchina fotografica dall’obiettivo assimilato al proprio occhio e la pellicola sostituita dalla tela. “Nulla è più favorevole della fotografia alle osmosi che si producono tra realtà e surrealtà; con il nuovo vocabolario che impone, essa offre la lezione del massimo rigore e insieme della massima libertà”. La spiaggia di Rosas (uno dei luoghi oniroidi privilegiati dalla promenadi solitarie di Dalì) fa da proscenio ad enigmatiche coreografìe dove un cipresso può da un momento all’altro germogliare da una barca arenata accanto allo spettro della cugina Carolineta (“Apparizione di mia cugina Carolineta -Presentimento fluido); un bimbo con la blusa alla marinara assistere allo sferruzzare di una balia in mezzo ad una pozza d’ acqua (“Mezzogiorno”); un uomo in bicicletta appena riconoscibile nella distanza ovattata del crepuscolo avvicinarsi ad un gruppo di uomini in giacca e berretta che appaiono chini su frammenti di pietre in un angolo della visione (“Immagine medianico-paranoica”); ballerine di danza classica prelevate dalle lezioni di Degas sperdute inspiegabilmente in un vasto deserto eburneo o in compagnia di barche sfondate e borghesi ombrosi con nastri svolazzanti legati al cappello
(“Orizzonte perduto”, “Visione paranoico-astrale”). Le dimensioni eccezionalmente esigue di questi ed altri lavori puntualizzano la concezione fotografica alla quale il discorso di razionalizzazione estrema dell’irreale implicito al tema dell’ “apparizione” (epifania in Joyce; illuminazione in Rimbaud) ha infine portato l’ingegno pittorico di Dalì, ora più che mai esaltato dal progetto di creare “fotografie a mano” con l’ esattezza spasmodica e ultraretrograda di un Meissonier senza per questo trascurare l’effetto spaesante e decontestualizzante degli originali aggregati di oggetti e personaggi direttamente estratti da ipnagogìe o sogni pomeridiani. Nelle sue memorie parla di come questi quadri fossero stati “ispirati da enigmi piccolissimi di certe fotografie istantanee congelate a cui io aggiunsi un alito di Meissonier daliniano...” -21-
La stessa ansia di concretezza lo convince a scendere in campo nell’oggettistica, rivolgendo il suo metodo paranoico-critico al design di oggetti surrealisti a funzionamento simbolico e alla promozione della campagna estetica per il modern style nel quale vede “il fiorire apoteosico della cultura greco-romana, giunta alla succulenza grazie al pepe questa volta miracoloso del materialismo nordico”-22- (le stilizzazioni e le linee ondoso-convulsive dei movimenti architettonici fin de siecle, specie lo Jugendstil, si coniugano alla perfezione allo stilema iperplastico profuso da Dalì in “L’enigma del desiderio” e soprattutto “Ritratto della viscontessa Marie-Laure de Noailles” durante l’esecuzione del quale si svolse il fatidico incontro con Lacan). Oggetti da potersi definire tali per la loro tangibilità ma non certo per un fine utilitaristico o espressamente commerciale (trattandosi di idee travasate dal lucido vaneggiamento di un’artista): il pane daliniano, bersagliato da Aragòn per il suo rivoltante edonismo asociale, e così pure la giacca afrodisiaca guarnita da miriadi di bicchieri alla menta, la scarpa decorarta da un raffinato montage con zollette di zucchero o riutilizzata come cappello da Schiapparelli, la poltrona aerodinamica, le labbra di Mae West utilizzate come sofà, appartengono al regno paranoico-critico della materializzazione tridimensionale dei sogni, alla maniera in cui questi ultimi sono a loro volta realizzazioni di desideri e soddisfa quello, cruciale per tutti i surrealisti, attestata da Breton “di far controllare agli altri “la materia delle proprie fantasie mediante un cimento” consentito appunto dall’oggettistica o dalle installazioni e happening (nei quali Dalì furoreggia con invenzioni ritenute ardite persino per i suoi anni approntando, molti anni prima degli interventi ambientalisti di Beuys, un ricevimento surrealista con cinquemila sacchi di iuta appesi al soffitto). “L’ oggetto surrealista è incontrollabilmente deciso a non subire. L’ oggetto surrealista rivendica e saprà imporre la sua egemonia paranoico-critica. L’ oggetto surrealista è impraticabile, non serve ad altro che a far camminare l’ uomo, e estenuarlo, a cretinizzarlo. L’oggetto surrealista è fatto per l’onore, non esiste che per l’ onore del pensiero”-23-. Nel saggio dalla retorica picaresca dedicato all’intero campionario di oggetti psico-atmosferici-anamorfici teorizza il cannibalismo degli oggetti che illustra prontamente in “Cannibalismo autunnale” e “Donna con una scarpa”, per indicare, nel caso non fossero stati sufficienti da soli i suoi parafernalia alimentari (uova al tegame o in sella a pagnotte, carote infilate su uncini, Vermeer di Delft promosso a tavolo da pranzo, balie di formaggio e creature elefantiache cosparse di fagioli) la “forma mentis” che sia nello stile che nei motivi culinari traduce una voracità e una attrazione/repulsione per l’organico commestibile che maschera un’erotismo sopraffatto da manie di castrazione indotte dal ricordo del fratello morto e dalla” fallocrazia paterna” come preciserebbe Lacan.
All’altro capo della missione di salvezza dell’arte di Vermeer e dei preraffaelliti attuata nel cursus pittorico di questi anni di devozione al surrea
Fonti:
qui:http://www.liberodiscrivere.it/biblio/sc… oppure qui:http://www.liberodiscrivere.it/biblio/sc…
Questa l'analisi trovata in rete. Aggiungete altro, se volete
Niente di più esteriormente oggettivo del corpo di Gala, che da solo sa suscitare in Dalì acuti deliri morfonutritivi, grazie ai quali non deve penare a lungo per trovare le similitudini più convincenti e fulminanti tra la sua Gestalt e quella di oggetti e paesaggi asserviti alla ferocia paranoica (d’altronde in “Ritratto di Gala con due cotolette d’agnello” si era già chiaramente espresso sulla sinonimia alimentare in qualità di “transfert” erotico; accade in” Periferia della città paranoico-critica -pomeriggio ai margini della storia europea” del 1935, integralmente governato da una legislazione che Lacan ha (si ricordi) chiamato “identificazione iterativa dell’oggetto”. Valgono in linea di massima le medesime invenzioni di corpi intercambiabili di “Dormiente...”, ma al centro di questa veduta ribassata tra un tempio e l’entrata di un paesino catalano sulla metà destra della tela il cardine morfologico viene intercettato con estrema fermezza nel busto vigoroso di Gala, erogatore del vortice paranoico che contagia tutti gli oggetti con la sua onnipresenza analogica. La certosina organizzazione di questa sinfonia è documentata dai pazienti studi del grappolo d’uva (composto da un aggregato di ovuli che riproduce su scala ridotta le curve sensuali di Gala) e del treno, groppa e teschio di cavallo che reiterano nelle muscolature e nelle ossa la disposizione dei chicchi d’uva offerti alla vista dal braccio alzato di Gala; a loro volta nel dipinto si istituiscono assonanze formali tra la cassettiera sormontata da uno specchio ovale e il tempio
all’orizzonte composto da un parallelepipedo rosso sulla cui facciata si erge un frontone ad arcate dechirichiane e un lanternino rinascimentale che combacia con lo specchio della cassettiera; sulla destra un altra brillante consonanza si verifica tra la bambina con la corda e la campana oscillante nel campanile retrostante (un tema desunto da "Malinconìa e mistero di una strada”di De Chirico), così come l’arcata e il vano della torretta campanaria si riflettono in negativo nell’apertura cuspidata in primo piano e ritorna per l’ultima volta nel comodino e nell’archetto in fondo al vicoletto del villaggio di pescatori. All’impostazione di quest’opera vanno ricondotti per affinità lirica” Eco morfologica”, semplificazione suggestiva della “geminatio” di oggetti su direttrici verticali (si può pensare che le figure siano dipinte su un muro o che stiano fluttuando in aria come vere e propri fenomeni di rifrazione ottica), le numerose versioni di”Eco Nostalgica”, e “Coppia di teste piene di nuvole” in cui ricorre ancora una volta il tavolo dal panneggio naturalistico e persino la cornice è coinvolta nella trasfigurazione antropomorfica del logos paranoico. Un ulteriore e significativo apporto dell’universo artistico di Dalì alla stesura della tesi lacaniana consiste nell’aver provato la relazione tra il fenomeno paranoico e il materiale preferito dalle creazioni surrealiste, il sogno, per cui il metodo paranoico-critico rappresenta un rimedio alla difficoltà che ciascun artista incontra nella oggettivazione di un’esperienza per sua natura soggettiva come quella onirica. "C’è percezione del mondo esterno, ma essa presenta una doppia alterazione che la avvicina alla struttura del sogno: essa sembra rifrangersi in uno stato psichico intermediario tra il sogno e lo stato di veglia”-19-. Difficilmente si potrà trovare un termine di paragone per misurare l’altezza poetica raggiunta dalla pittura daliniana tra il 1930 e il 1940, sebbene martirizzata a posteriori dalla critica di gran parte delle avanguardie del secondo dopoguerra (ad eccezione degli iperrealisti) incline a demonizzare la maniacale retrività tecnica richiesta dal metodo (Breton gli preferisce Ernst per la sua inesauribile dote d’innovatore tecnico che gli suggerisce di rendere onirico anche il “modus operandi” mediante l’ideazione del “frottage” e del “grattage”): ma in effetti Dalì resta il solo in grado di mettere in pratica le considerazioni di Breton che pure credeva nel metodo, “strumento di primissimo ordine” e che del soggetto paranoico aveva detto che “è in suo potere far controllare agli altri la realtà delle sue impressioni”.”-20-
Il “desiderio di verifica perpetua” viene pertanto esaudita dal catalano con una rosa di tele di piccole dimensioni in cui, con adeguato virtuosismo stroboscopico, si concentra nella sbalorditiva emulazione di una macchina fotografica dall’obiettivo assimilato al proprio occhio e la pellicola sostituita dalla tela. “Nulla è più favorevole della fotografia alle osmosi che si producono tra realtà e surrealtà; con il nuovo vocabolario che impone, essa offre la lezione del massimo rigore e insieme della massima libertà”. La spiaggia di Rosas (uno dei luoghi oniroidi privilegiati dalla promenadi solitarie di Dalì) fa da proscenio ad enigmatiche coreografìe dove un cipresso può da un momento all’altro germogliare da una barca arenata accanto allo spettro della cugina Carolineta (“Apparizione di mia cugina Carolineta -Presentimento fluido); un bimbo con la blusa alla marinara assistere allo sferruzzare di una balia in mezzo ad una pozza d’ acqua (“Mezzogiorno”); un uomo in bicicletta appena riconoscibile nella distanza ovattata del crepuscolo avvicinarsi ad un gruppo di uomini in giacca e berretta che appaiono chini su frammenti di pietre in un angolo della visione (“Immagine medianico-paranoica”); ballerine di danza classica prelevate dalle lezioni di Degas sperdute inspiegabilmente in un vasto deserto eburneo o in compagnia di barche sfondate e borghesi ombrosi con nastri svolazzanti legati al cappello
(“Orizzonte perduto”, “Visione paranoico-astrale”). Le dimensioni eccezionalmente esigue di questi ed altri lavori puntualizzano la concezione fotografica alla quale il discorso di razionalizzazione estrema dell’irreale implicito al tema dell’ “apparizione” (epifania in Joyce; illuminazione in Rimbaud) ha infine portato l’ingegno pittorico di Dalì, ora più che mai esaltato dal progetto di creare “fotografie a mano” con l’ esattezza spasmodica e ultraretrograda di un Meissonier senza per questo trascurare l’effetto spaesante e decontestualizzante degli originali aggregati di oggetti e personaggi direttamente estratti da ipnagogìe o sogni pomeridiani. Nelle sue memorie parla di come questi quadri fossero stati “ispirati da enigmi piccolissimi di certe fotografie istantanee congelate a cui io aggiunsi un alito di Meissonier daliniano...” -21-
La stessa ansia di concretezza lo convince a scendere in campo nell’oggettistica, rivolgendo il suo metodo paranoico-critico al design di oggetti surrealisti a funzionamento simbolico e alla promozione della campagna estetica per il modern style nel quale vede “il fiorire apoteosico della cultura greco-romana, giunta alla succulenza grazie al pepe questa volta miracoloso del materialismo nordico”-22- (le stilizzazioni e le linee ondoso-convulsive dei movimenti architettonici fin de siecle, specie lo Jugendstil, si coniugano alla perfezione allo stilema iperplastico profuso da Dalì in “L’enigma del desiderio” e soprattutto “Ritratto della viscontessa Marie-Laure de Noailles” durante l’esecuzione del quale si svolse il fatidico incontro con Lacan). Oggetti da potersi definire tali per la loro tangibilità ma non certo per un fine utilitaristico o espressamente commerciale (trattandosi di idee travasate dal lucido vaneggiamento di un’artista): il pane daliniano, bersagliato da Aragòn per il suo rivoltante edonismo asociale, e così pure la giacca afrodisiaca guarnita da miriadi di bicchieri alla menta, la scarpa decorarta da un raffinato montage con zollette di zucchero o riutilizzata come cappello da Schiapparelli, la poltrona aerodinamica, le labbra di Mae West utilizzate come sofà, appartengono al regno paranoico-critico della materializzazione tridimensionale dei sogni, alla maniera in cui questi ultimi sono a loro volta realizzazioni di desideri e soddisfa quello, cruciale per tutti i surrealisti, attestata da Breton “di far controllare agli altri “la materia delle proprie fantasie mediante un cimento” consentito appunto dall’oggettistica o dalle installazioni e happening (nei quali Dalì furoreggia con invenzioni ritenute ardite persino per i suoi anni approntando, molti anni prima degli interventi ambientalisti di Beuys, un ricevimento surrealista con cinquemila sacchi di iuta appesi al soffitto). “L’ oggetto surrealista è incontrollabilmente deciso a non subire. L’ oggetto surrealista rivendica e saprà imporre la sua egemonia paranoico-critica. L’ oggetto surrealista è impraticabile, non serve ad altro che a far camminare l’ uomo, e estenuarlo, a cretinizzarlo. L’oggetto surrealista è fatto per l’onore, non esiste che per l’ onore del pensiero”-23-. Nel saggio dalla retorica picaresca dedicato all’intero campionario di oggetti psico-atmosferici-anamorfici teorizza il cannibalismo degli oggetti che illustra prontamente in “Cannibalismo autunnale” e “Donna con una scarpa”, per indicare, nel caso non fossero stati sufficienti da soli i suoi parafernalia alimentari (uova al tegame o in sella a pagnotte, carote infilate su uncini, Vermeer di Delft promosso a tavolo da pranzo, balie di formaggio e creature elefantiache cosparse di fagioli) la “forma mentis” che sia nello stile che nei motivi culinari traduce una voracità e una attrazione/repulsione per l’organico commestibile che maschera un’erotismo sopraffatto da manie di castrazione indotte dal ricordo del fratello morto e dalla” fallocrazia paterna” come preciserebbe Lacan.
All’altro capo della missione di salvezza dell’arte di Vermeer e dei preraffaelliti attuata nel cursus pittorico di questi anni di devozione al surrea
Fonti:
qui:http://www.liberodiscrivere.it/biblio/sc… oppure qui:http://www.liberodiscrivere.it/biblio/sc…
Turtle- Amico
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